Lo chiamano mal d’Aquila, le macerie in fondo al cuore, un ricordo dolce amaro di una terra dilaniata. La polvere, la paura, gli occhi smarriti di chi ha perso tutto sono spariti. E la terra impazzita che si muoveva crudele, per giorni, riaprendo ferite. L’Aquila non esisteva più. E chi era rimasto in vita contava i morti e cercava solo un po’ d’acqua o latte per i bambini, aggirandosi spaesato tra le tendopoli. Lo sguardo fisso, granitico, niente lacrime da mostrare. Il suolo tremava ancora, solo il cielo sembrava sicuro, c’era chi dormiva in macchina con le valigie, perché quel boato era rimasto nell’aria. E non c’era riparo, solo un comune, muto senso di fragilità davanti alla potenza della natura. Inutile avventurarsi, la città era rasa al suolo, transennata, a rischio crolli. E le storie dei miracolati raccontavano una notte interrotta da grida, fughe disperate in pigiama a piedi nudi, via di corsa da un città che non c’era più.
A quindici anni dal terremoto L’Aquila ricorda le sue 309 vittime ma guarda anche al futuro. La città è in movimento, come la ricostruzione. Le gru che si stagliavano alte in cielo sono di meno, il centro sta riacquistando una sua identità. Il passato è un incubo da rimuovere, come la distesa di bare, le tendopoli, il senso di spaesamento in una città fantasma, popolata da superstiti coraggiosi e rudi, sullo sfondo un paesaggio e un’architettura che non hanno mai perso anzi e nonostante, il fascino, l’eleganza e l’appeal. I numeri, le date, sono cifre indelebili nella memoria: erano le 3.32 del 6 aprile 2009. La scossa di magnitudo 6.3, l’ultima di una lunga scia iniziata mesi prima. I 1.600 feriti, il paesaggio spettrale, i paesini rasi al suolo, le famiglie semi distrutte, il via vai delle più alte cariche dello Stato, anche il G8 fatto di proposito a L’Aquila. In silenzio, tenace, tosta la città si è rimboccata le maniche. C’era il dolore di restare ma anche quello di andar via. Gru, cavi, cantieri, cartelli affittasi/vendesi. Poi la rinascita, graduale ma serrata. Ma ieri la città si è fermata. Nessuno è mancato alla fiaccolata in ricordo delle vittime di quella notte. Alle 20 un fascio di luce si è acceso da Palazzo Margherita. Poi il corteo lungo via XX Settembre, con una sosta davanti alla Casa dello Studente, fino al Parco della Memoria. Qui due aquilani nati nel 2009 hanno acceso un braciere, al termine sono stati scanditi i nomi delle vittime. Molte altre le cerimonie, dalla messa a mezzanotte, alla fiaccolata a Onna, uno dei paesi più disastrati. A tutto l’Abruzzo è stato chiesto di mettere un lume alla finestra.
Possente, sontuoso, il centro storico ha ripreso vita.
I 56 PAESI
Il dolore non passa ma ci si può convivere. Gli aquilani l’hanno dimostrato subito, da quando granitici non mostravano cedimenti, assiepati a tratti confusi, nelle tendopoli sparse nel nulla. Basta non chiudere troppo gli occhi, mantenere la bussola. Raffaello Fico, responsabile dell’Ufficio speciale della ricostruzione dei Comuni del Cratere del sisma (56 paesi) ha il polso della situazione visto che, originario di Napoli, dopo l’arrivo nel momento dell’emergenza ha scelto di vivere e metter qui famiglia. «Siamo a circa la metà del percorso di recupero delle abitazioni private, da Pizzolo a Campotosto, da Fossa a Barisciano». Il 50% degli abitanti sono rientrati, per il resto i paesini sono un presepe di cantieri in corso. «Anche le scuole sono a metà della ricostruzione: 200 su 450». Conosce bene il territorio pur essendo arrivato per caso. «In centro la ricostruzione è finita, a parte immobili pubblici e chiese, quelle sì, un tallone d’achille compreso il Duomo. Non si è tornati al pre terremoto, mancano uffici postali, banche, parcheggi, edicole, un bel mercato. Anche i borghi non sono più gli stessi». Volontario della Protezione civile, si è innamorato de L’Aquila e non solo. Ora ha una famiglia, due figli. E 56 comuni che vuole coinvolgere con i fondi del Pnrr in una rete di percorsi, cammini, per far conoscere il territorio. «L’Aquila capitale della cultura sarà un’occasione per uscire dal ricordo».